22.11.63

Si può cambiare il passato? Se sì, a quale prezzo? E, potendolo fare, vi assumereste un siffatto onere sapendo che: 1) la speranza di migliorare il futuro dell’umanità (questo il nobile fine dell’impresa) poggia su fondamenta tutt’altro che solide; e che: 2) il fallimento è l’esito più naturale nonché la soluzione privilegiata dall’universo (o destino che dir si voglia)?

È al cospetto di tali quesiti che 22.11.63 pone lo spettatore. Prendendo a pretesto un evento chiave del secolo scorso come l’assassinio di JFK, la miniserie – e, prima, il romanzo capolavoro di Stephen King – si interroga e ci interroga sull’ineluttabilità del passato e sulla necessità che il presente che viviamo sia esattamente quello che è; ci mette altresì in guardia dal voler contrastare, impedire, deviare il corso naturale delle cose.

L’adattamento televisivo delle quasi 800 pagine di materiale originale ha comportato di per sé una serie di sfide, la gran parte delle quali è stata brillantemente superata. La scommessa più grande è stata senza dubbio quella di trovare un modo verosimile per introdurre la questione del viaggio nel tempo. King, da consumato narratore qual è, eccelle appunto nel rendere fattibile l’improbabile, intuibile l’inspiegabile, e dunque non ha dovuto far altro che servirsi della consueta abilità di storyteller per imbastire una premessa non dirò credibile ma accettabile.

Al contrario, un medium prettamente visivo come la serie TV non può fare affidamento sulla capacità affabulatoria di un narratore, né può sottrarsi all’esigenza di visualizzare quanto nel libro è solo raccontato. In parole povere: l’idea che lo sgabuzzino di una tavola calda possa fungere da “macchina del tempo” può reggere (e regge) sulla carta, ma perché convinca il telespettatore sono necessari alcuni accorgimenti. Da questi dipende la riuscita dell’intero show (per avere un paragone immediato pensate alle difficoltà di tradurre per la TV o per il cinema i grandi romanzi fantasy: sterminati universi esistenti solo nella mente dell’autore e composti di razze, lingue e religioni diverse che devono concretizzarsi sullo schermo e al contempo risultare credibili).

Molti degli accorgimenti sfruttati dalla sceneggiatura giocano sul fattore tempo e si possono condensare nei primissimi minuti di 1×01: il protagonista finisce (suo malgrado) in una situazione eccezionale nel giro di pochi attimi, scoprendo da un amico in fin di vita l’esistenza dell’anomalia temporale – che accetta senza porsi troppe domande (anche il pubblico, questo l’implicito suggerimento, faccia altrettanto) – ed ereditando una missione della cui bontà si è convinto istantaneamente (salvare Kennedy è l’unica cosa che conta se si vuole influenzare positivamente il futuro). Niente discussioni filosofiche sulla possibilità del viaggio nel tempo, nessuno spiegone traballante che scomodi la terminologia della fisica quantistica per simulare una patente di verità: sì, ci troviamo davanti a un fatto altamente bizzarro, ma questo è quanto e non c’è tempo da perdere in disquisizioni. Si rinuncia consapevolmente a infiorettare la straordinaria scoperta – che, da sola, avrebbe potuto occupare l’intero pilot – pur di rimpiazzare alla staticità del momento celebrativo il ritmo serrato della narrazione che già si fa corsa contro il tempo – perché in una serie incentrata sul tempo la resa dei conti non può arrivare che dopo un inesorabile countdown.

Vinta la prima sfida ne nasce già una nuova, ovvero la ricostruzione degli anni Sessanta sotto ogni aspetto, tanto concreto quanto culturale: dall’architettura al vestiario, alla tecnologia, alla mentalità, al modo di parlare. Il romanzo kinghiano riesce efficacemente a trasmettere un senso di nostalgia per quell’epoca anche al lettore che non l’abbia personalmente vissuta per motivi anagrafici; una delle prime cose che colpisce il protagonista sbucato nel passato (dove, peraltro, egli dovrà trascorrere cinque anni prima del fatidico giorno del titolo) è il sapore del cibo, più intenso e genuino: questa considerazione e altre sul medesimo tenore inducono a considerare 22.11.63 (romanzo e serie TV) come un grande revival all’insegna del “si stava meglio quando si stava peggio” – inclinazione che non sfocia mai in un’esaltazione acritica, giacché non vengono taciute le molteplici contraddizioni del decennio (la questione della razza, la capillarità della violenza…). Il prodotto televisivo, pur accorciando a tre anni la permanenza di Jake nel passato, asseconda l’atteggiamento positivo nei confronti di quel periodo storico e lo fa, sul versante visivo, con la riproposizione fedele dell’immaginario dell’epoca (spiccano in particolare gli eleganti vestiti e le lussuose automobili), e, sul versante tecnico, con una saturazione del colore in grado di suggerire – in contrasto con la freddezza della linea temporale ambientata nel presente – la maggiore “vitalità” degli anni del boom economico e demografico.

Certamente i Sixties segnano una rinascita per il nostro protagonista Jake Epping (James Franco), che, da insegnante costretto alle lezioni serali per arrotondare e uomo frustrato dall’abbandono della moglie diventa, nel 1960, il professor Jake Amberson, stimato membro della comunità e individuo economicamente indipendente (grazie a un trucchetto che strizza l’occhio a Ritorno al futuro II). In quel passato che è per lui la madre di tutte le seconde possibilità troverà anche l’amore della sua vita nella persona della graziosa bibliotecaria Sadie Dunhill (Sarah Gadon). Ma Jake è vincolato dalla promessa fatta all’amico ristoratore Al Templeton (Chris Cooper), colui che gli ha svelato la bizzarra anomalia spaziotemporale localizzata nel suo diner e che ora sta per soccombere a un cancro ai polmoni in fase terminale: la promessa è che ucciderà Lee Harvey Oswald (Daniel Webber). Facile a dirsi, più complicato a realizzarsi. La missione, accettata senza molti scrupoli dal nostro, si rivelerà più difficile del previsto per almeno due ragioni: innanzitutto Jake non è avvezzo a togliere la vita alle persone e difatti, quando gli si presenterà l’occasione perfetta, se la lascerà sfuggire; in secondo luogo dovrà fare i conti con i capricci del destino.

È il destino il vero antagonista, non Oswald – uomo dai molti difetti che tuttavia intenerisce per la sua condizione di padre di famiglia. Questo nemico senza volto interviene ogniqualvolta si provi a modificare il corso della Storia, configurandosi essa come un copione già scritto che attende solo i propri attori per essere recitato. Esistono addirittura dei guardiani (l’Uomo con la Tessera Gialla in cui Jake si imbatte più volte) incaricati per l’appunto di scongiurare qualsiasi alterazione della continuità temporale. Il giovane professore non si lascia però scoraggiare dagli impedimenti e, aiutato da Sadie, combatterà il round finale del suo scontro con il destino in quel cruciale 22 novembre 1963.

Da elogiare il lavoro degli sceneggiatori che, in controtendenza rispetto al procedimento odierno, sottopongono il testo di base a numerosi e benefici tagli, semplificando la trama dove possibile e affidando la narrazione a sole otto puntate (laddove qualcuno ne avrebbe confezionate 13 o addirittura avrebbe spalmato la storia su due o più stagioni). Il prodotto che ne risulta è un magistrale esempio di adattamento per il piccolo schermo, mentre Under The Dome, per fare il confronto con un altro show nato dalla bibliografia kinghiana, è ben lontano dai dettami seguiti per 22.11.63 e difatti si è rivelato assai modesto; la miniserie – prodotta, tra gli altri, dal talentuoso J. J. Abrams e dal suo braccio destro Bryan Burk – è la prova che per fare buona televisione non si deve prendere in giro lo spettatore moltiplicando a dismisura le sottotrame del soggetto di partenza e allungando il polpettone all’infinito. In casi come questo il termine “riduzione” non suggerisce nessuna accezione negativa. Anzi.


LoRivedresti? Senz’altro! Prendete una tra le migliori trame di un maestro della letteratura come Stephen King e trasformatela in una serie avvincente, attenta ai dettagli e onesta con il pubblico: avrete 22.11.63 – qualcosa in più e allo stesso tempo in meno del romanzo ispiratore (che comunque costituisce una lettura obbligata). Dopo un inizio folgorante e ottimamente costruito la narrazione preme sull’acceleratore e offre imprevisti, scoperte e colpi di scena. E se chiudere bene è un’arte considerate l’appagante e tuttavia malinconico episodio finale, che, a suggello di un ragionevole ammontare di ore (né troppe né troppo poche) occupate da grande intrattenimento, regala nella sua perfezione un commovente, memorabile epilogo e consegna alla televisione uno dei più efficaci adattamenti degli ultimi tempi.

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